Non si muoveva. Quell’uomo non si muoveva, più.
Quando sono entrata nel treno della metropolitana avevo guardato tutti.
C’era una ragazza con gli occhi chiari e le cuffie bianche, grandi, forse troppo per il suo piccolo e magro viso. Mi guardava, ma forse non guardava me.
Ricordo anche tre bambini asiatici, con la mamma e il papà. Sorridevano, giocavano. Erano allegri.
Alla mia destra c’era una signora, dalle forme morbide, i capelli né lunghi né corti, si guardava intorno, aveva l’aria simpatica.
E poi lo studente universitario, il signore col bastone, gli uomini con la 24 ore.
Io, invece, guardavo la mia immagine riflessa sulle porte del treno.
Il mio sguardo si perse.
Uno ad uno.
Si riempirono di sangue e proiettili.
Un grido e poi tanti spari, quei sorrisi si spensero, gli occhi si chiusero.
I loro corpi adagiati sui sedili di quel treno dal colore arancione. Avevo immaginato le loro vite e i loro pensieri, e ora pensavo a chi li aspettava a casa, a una fermata. O chi non aveva più nessuno, ma viveva per la vita.
Era diventato il treno della morte. L’avevano detto, avevano lanciato quell’allarme, ma non ci credevi mai. E poi all’improvviso. La fine del mondo.
Buio. Grida. Spari. Sangue. Vite. Vita.
Ed era arrivato anche il mio turno. L’attentatore, perché si, quello aveva l’aria di essere un attentato, l’attentatore si fermò, senza spararmi.
“Ottaviano”.
Le porte del treno si aprirono. Scesi. Mi lasciai i cadaveri, cosparsi di sangue alle spalle, e quando mi voltai, il bambino asiatico mi salutò. E la ragazza con gli occhi chiari continuava a sentire la sua musica. E la signora si guardava intorno.
Chissà, magari anche lei aveva visto quello che avevo visto io e forse pensava a come salvarsi.
Ma la vita continuava e i miei pensieri, avevano paura.
Una preghiera, un pensiero, un silenzio per tutte le vittime di attentati terroristici.
Maria Elena Marsico
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